STORIE DI PIPA by Duilio Chiarle

STORIE DI PIPA by Duilio Chiarle

autore:Duilio Chiarle
La lingua: ita
Format: epub
editore: ilmiolibro.it
pubblicato: 2015-11-04T00:00:00+00:00


A Salerno - la gente di là se ne ricorda ancora per una canzonatura poetica fattami da un giornaletto spiritoso - io avevo preso un alloggio tra cielo e terra, ma più in là che in qua, per la semplice ragione di essere io amantissimo della quiete e insofferente del frastuono della via, il quale né consente il riposo di notte né lo studio di giorno; e per un’altra ragione anche più semplice che non mette il conto di qui riferire. In una via secondaria, al quarto piano di un caseggiato vecchio e scorticato, dove si entrava per un portoncino che avea vergogna di farsi vedere e si andava su per ottantaquattro scalini che parevano un dirupo, io avevo una camera, una bella camera, una cameraccia, mobiliata meno che modestamente. Mi ero determinato a fissarla, prima perché se l’ingresso era dalla parte del vicolo, la finestra della camera dava in una via larga e signorile; e poi perché, in verità io ho succhiato col latte l’aborrimento di quel lusso che è il baco della società contemporanea. Cercavo aria, perché l’aria fa bene all’esercizio dei polmoni e giova allo sviluppo delle idee; e di aria ce n’era in abbondanza in quella camera, la quale era vasta quanto un cortile e la cui finestra, avanzando in altezza le case poste di faccia, ne sormontava i tetti e vedeva tutto il semicerchio dell’orizzonte con un po’ di mare e un pezzo di montagna. Di più, lo spazio non era soverchiamente ingombrato, né a muoversi intorno ci si sentiva impacciati, come accade in coteste sale da sibariti, dove ad ogni passo s’incepisca in un tappeto, si rovescia una seggiola, o si corre il rischio di rompersi le costole nello spigolo di un mobile intagliato. La mia camera valeva a dare un’idea molto approssimativa del vuoto, e se ne faceva l’inventario con una occhiata. Un tavolino bianco davanti alla finestra, un cassettone dalle gambe lunghe e dai foderi ornati di borchie di ottone, un canapè preistorico dalla spalliera fatta a stecche come un pollaio e tre seggiole. Sul cassettone era uno specchietto a bilico, il quale aveva il gusto matto di canzonarvi, stirandovi la faccia di traverso e dipingendola di un colorito tra il verde e l’olivastro. Era fiancheggiato e guardato a vista da due sentinelle di gesso: un Turco colorato come un arcobaleno, il quale fumava una pipa turchina, ed un Napoleone a Sant’Elena che contemplava con una tenacità proprio napoleonica il fumo solido di quella pipa. Le pareti di quella camera, in corrispondenza della generale semplicità, erano nude e passate di bianco, fino ad una fascia nera ricorrente tutto intorno; e sotto il soffitto era infisso un gancio, servito un tempo ad appendervi chi sa che cosa. Il mio pensiero fisso era questo di adornare in qualche modo la nudità di quelle pareti; e dai primi giorni della mia istallazione avevo posto mano al lavoro, sospendendo sul canapè con bellissima simmetria non meno di sette calendari i quali aveano la singolarità che sopra



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